La salute trans in Piemonte: report delle risposte al questionario

Posted by seitrans on 08/01/2022

A fine agosto abbiamo aperto e iniziato a diffondere un questionario per raccogliere le esperienze con i servizi per l’affermazione di genere in Piemonte direttamente dalle persone trans e non-binarie (il questionario continua a essere accessibile qui).

Abbiamo raccolto in totale 42 questionari (da cui sono già stati sottratti quelli nulli perché compilati a caso), da cui ne vanno tolti tre, compilati da persone che volevano mettersi in contatto con noi ma che non rispondono ai requisiti che si richiedevano per la compilazione del questionario (aver iniziato o portato a termine il percorso di affermazione di genere in Piemonte oppure avere l’intenzione di iniziarlo e aver già effettuato il primo contatto con il servizio/sportello a cui s’intende appoggiarsi).

Tra le 39 rimanenti, sette persone stanno portando avanti o hanno concluso il percorso presso altri centri/studi/sportelli: una attraverso l’Unità di Identità Atipica di Genere dell’ospedale Regina Margherita (Torino), che segue minori d’età; tre attraverso lo sportello Spo.T dell’associazione Maurice GLBTQ; una attraverso il CEST (Centro Salute Trans e Gender Variant) di Roma; una privatamente attraverso l’ASL di via Farinelli (Torino); una non specifica presso quale servizio. Tra queste, l’unico servizio pubblico è quello dell’Unità di Identità Atipica di Genere dell’ospedale Regina Margherita (Torino), unico servizio pubblico per minori in Piemonte, per quanto di nostra conoscenza. Tutti gli altri sono servizi che prevedono (almeno parzialmente) il ricorso a professionistə privatə. Tra i motivi per cui queste persone si sono rivolte a servizi non pubblici, vengono menzionati: affidabilità, minor patologizzazione, rigetto o difficoltà nel percorso al CIDIGeM (una persona scrive che è stata “sfanculata” nonostante stesse molto male e non ha avuto altra scelta che rivolgersi al privato), rapidità delle risposte, tempi di attesa minori. Per quanto riguarda i costi, le indicazioni che abbiamo avuto variano dagli 80 ai 250 euro al mese; tuttavia, le risposte sono troppo poche e con riferimenti temporali troppo diversi per offrire una stima affidabile.

32 persone hanno iniziato, concluso o vorrebbero iniziare il percorso presso il CIDIGeM. Tra queste, sei persone hanno già contattato il CIDIGeM ma non hanno ancora avuto risposta per fissare il primo colloquio: due attendevano da due mesi al momento della compilazione, una da tre mesi, una da quattro mesi, una da dieci mesi, una da un anno.

Tra le 26 persone che hanno già effettuato almeno il primo colloquio, quattro persone non hanno riscontrato criticità nel centro. Tra le altre 22 persone, le criticità più rilevanti riguardano due aspetti principali: le lunghe attese e i rapporti con alcunə o tuttə lə professionistə.

Le criticità sulle tempistiche sono state messe in evidenza da molte delle persone che hanno passato lo step del primo colloquio (23); inoltre, come abbiamo visto sopra, questa è stata la ragione che alcune persone hanno indicato per la loro scelta di rivolgersi poi al privato. I tempi di attesa per fissare il primo colloquio pre-covid andavano da uno a sei mesi, ma con lo scoppiare della pandemia le tempistiche si sono dilatate a dismisura e, attualmente, a quasi due anni dall’inizio della pandemia in Italia, sembrano essere ancora fuori controllo (dai sei ai nove mesi come minimo, ma alcune persone segnalano di avere atteso o di stare attendendo da più di un anno). A questa attesa iniziale per fissare il colloquio conoscitivo, vanno sommate altre attese durante il percorso: dal colloquio conoscitivo all’inizio del percorso psicologico le attese sono sui sei-sette mesi (prima del covid anche solo un mese); da quando s’inizia il percorso psicologico alla prescrizione degli ormoni le persone che hanno risposto hanno atteso da un minimo di 7 mesi fino ai due anni (una persona sta ancora attendendo dopo due anni di percorso psicologico); dopo l’inizio della terapia ormonale di prassi l’attesa è di almeno un anno prima che lə professionistə scrivano la relazione per poter fare richiesta al tribunale per il cambio di documenti, ma una delle persone che ha risposto ha iniziato gli ormoni ormai da tre anni e ancora non ha avuto la relazione; per le operazioni chirurgiche l’attesa è di minimo un altro anno se tutto va bene. Una persona che ha iniziato il percorso da minorenne (inizialmente presso l’Unità di Identità Atipica di Genere dell’ospedale Regina Margherita) sta portando avanti il percorso da otto anni. Oltre alla durata dell’attesa si evidenziano altre problematiche: innanzitutto, la scarsa trasparenza sulle tempistiche, per cui diverse persone hanno avuto risposte solo dopo aver insistito e/o essersi recate al centro di persona, un’altra persona non ha avuto risposte nemmeno dopo aver mandato sei mail al mese per sette mesi consecutivi; inoltre, molte persone evidenziano la disorganizzazione del centro e/o di alcunə professionistə, per cui spesso le persone si trovano a dover attendere a lungo in ospedale nonostante l’appuntamento fosse stato fissato, oppure a vedersi posticipare all’ultimo gli appuntamenti a data da destinarsi.

Oltre alle criticità legate all’attesa, sono emerse anche criticità nel rapporto con le professioniste da alcune delle persone rispondenti:

– il forte gatekeeping percepito: diverse persone hanno evidenziato come vivessero con il timore costante che dalle sedute psicoterapeutiche emergessero elementi che avrebbero rallentato ulteriormente il percorso; altre hanno subito rallentamenti dovuti al fatto che la persona non fosse in grado, secondo le professioniste, di mostrare esaustivamente la sua sofferenza e il suo bisogno del percorso di transizione; inoltre, alcune persone hanno segnalato di essersi viste negare la diagnosi di disforia all’ultima seduta, dopo due anni di terapia e senza che la psicoterapeuta avesse mai fatto trapelare che le cose non stavano procedendo in quella direzione;

– la visione binaria e stereotipata del genere: un ragazzo, per esempio, ha ricevuto critiche perché indossava orecchini o smalto, anche se secondo una delle persone che ha risposto ci sono stati miglioramenti;

atteggiamenti paternalistici e transfobici: per esempio, una persona non binaria si è sentita chiedere se pensasse che le persone non binarie esistessero davvero;

informazioni scarse e/o poco trasparenti sugli effetti degli ormoni e sulle diverse opzioni di trattamento;

– il percorso psicologico non offre un vero supporto psicologico ma è mirato alla diagnosi e le sedute sono troppo distanziate l’una dall’altra (una al mese in media);

scarsa formazione del resto del personale ospedaliero sulle tematiche trans: per esempio, nonostante il centro esista da 20 anni il personale continua a sbagliare i pronomi con cui rivolgersi allə pazienti;

rallentamenti o blocco del percorso se emergono altre problematiche/diagnosi, per esempio tossicodipendenza (una persona è stata allontanata per questo motivo) o sospetto di autismo.

Per concludere, riportiamo stralci di alcune risposte che abbiamo trovato particolarmente significative.

*** ATTENZIONE: gli stralci che seguono contengono riferimenti a transfobia, riferimenti sessuali espliciti, sofferenza psichica e minaccia di suicidio ***


Non [mi sono sentito] abbastanza in confidenza da poter parlare liberamente del mio non binarismo. Non mi sono mai esposto come non binario, definendolo in modo chiaro, per evitare prolungamenti o rotture durante il percorso.

Il percorso psicologico è finalizzato alla mera diagnosi e ottenimento della tos, io che avrei avuto bisogno di un reale sostegno psicologico non l’ho percepito, poiché gli incontri (a cadenza di una volta al mese circa) si basavano su raccolta anamnestica e assegnazione di test vari da compilare.

***
Mi sono sentito ignorato, abbandonato (a causa dei rinvii di appuntamenti o del loro disattendere quello che mi avevano detto rispetto al mio percorso), arrabbiato e traumatizzato per come mi hanno trattato.

La psicologa mi ha mentito, fatto gaslighting e ha assunto comportamenti terribilmente paternalistici e transfobici. Idem lu altru professionistu dell’equipe che però ho potuto vedere solo alle conferenze. Vi riassumo alcuni punti salienti. TW: transfobia.

La psicologa, sapendo il mio essere non binary, dopo almeno 3 mesi di colloqui mi ha chiesto se secondo me le persone non binarie esistessero davvero, come se fosse un semplice argomento di conversazione, non un’identità io e altre persone abbiamo. Dopo 9 mesi di psicoterapia mi ha detto che quando era con me le era ‘facile credermi’, ma poi le venivano i dubbi sul fatto che io avessi fossi davvero non binary. Sempre dopo 9 mesi mi ha detto, davanti alla mia impazienza per l’attesa, che “se non riuscivo a farle capire quanto soffrivo e quanto avevo bisogno della transizione non era colpa sua. È come quando due persone stanno insieme e uno non riesce a dire all’altra che la ama, l’altra non può capirlo” facendo una metafora che non c’entrava nulla, e sottolineando quanto per lei la “sofferenza” fosse necessaria. La psichiatra a una conferenza sul servizio di transizione del centro ha usato la parola “normali” per descrivere adolescenti cis etero, in contrapposizione con persone trans e persone cis gay. Il ginecologo ha detto che senza l’isterectomia il percorso di transizione “perde senso”. Lo psichiatra mi ha chiesto i miei gusti sessuali e cosa immaginavo masturbandomi, durante le sedute del percorso.

Dopo 10 mesi di sedute psicologiche mi era stato dato un appuntamento con l’endocrinologa, ma ho scoperto, passando per caso la settimana prima al centro, che “il mio caso non era ancora stato deciso” e che “non mi conveniva passare la settimana dopo perché probabilmente non mi avrebbero dato gli ormoni” (tutti i condizionali e i probabilmente di questa frase sono riportati dalla realtà), dicembre 2019. Quando a fine gennaio 2020 ho avuto finalmente quello che pensavo fosse l’appuntamento con l’endocrinologa, la psicologa mi ha detto, il giorno stesso, che non soffrivo abbastanza (o che non sapevo dimostrarglielo) e che avrei dovuto fare almeno un altro anno di terapia da lei, se no non cambiavano decisione. Però dovevo essere felice, perché mi avevano dato la possibilità di continuare con loro invece di “dimettermi” (e insomma dirmi: no non sei trans).

***
Ho avuto la netta impressione che di me personalmente non gli importasse a molto e che fossero infastiditi che avessi già la sentenza per il cambio anagrafico e l’autorizzazione agli interventi [da parte di un tribunale], sentenza che loro hanno bellamente ignorato (corredata anche da diverse perizie che auspicavano l’intervento come parte integrante del mio percorso) non mettendomi per oltre due ANNI in lista d’attesa per l’intervento e, anzi, arrogandosi il diritto di comunicarmi che MAI mi avrebbero messo in lista perché per loro stavo bene così. A causa loro non sono riuscita a completare il percorso e sono caduta in una profonda depressione mai risolta e attualmente sono in cura presso gli psichiatri del SSN di un altro ospedale.

***
Dopo due anni di terapia dove sembrava che le cose stessero andando per il verso giusto, all’ultima seduta mi è stata negata la diagnosi di disforia di genere.

La dottoressa che mi ha seguita ha giustificato la sua conclusione letteralmente piazzandomi un foglio di carta davanti, scrivendoci sopra ”M” e ”F” nei suoi poli opposti e dicendomi che, dato che secondo lei non rientravo completamente in ”F”, non c’erano i presupposti per rilasciarmi una diagnosi. Ha anche affermato di avere già deciso la cosa mesi prima, quindi a tutti gli effetti mentendo per diversi appuntamenti. Come se non bastasse, dall’istante in cui ella ha comunicato il suo giudizio ha smesso di rispettare i miei pronomi scelti e a usare il mio deadname. Ho saputo di non essere affatto l’unica persona a cui è successo questo.

Se la mia migliore amica non mi avesse messa a conoscenza di un altro centro dove riprendere il mio percorso, sarei stata trovata nella carcassa in fiamme della mia auto in fondo a una montagna. Non voglio nemmeno cominciare a pensare al fatto che qualcun altro potrebbe non aver avuto la fortuna di sapere che c’era ancora una chance e aver compiuto gesti estremi.

Racconto la mia esperienza ovunque possibile per denunciare questi episodi di gatekeeping. Spero di venire ascoltata tramite il questionario.

Nessuno dovrebbe avere il potere di decidere la validità dell’identità di un’altra persona e dunque il destino della sua vita secondo i propri pregiudizi.

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Penso che fra i medici e psicologi nel sistema c’è tanta comunicazione, scambiano fra di loro pareri e opinioni che poi condividono con me in più luoghi, però mi sento esclusa dalle discussioni, e penso che non ci sono persone trans coinvolte in tutte queste comunicazioni che fanno fra di loro sempre con occhio esterno e accademico e riduttivo. Penso che il Cidigem per diventare una organizzazione meno paternalista che riesce a dare soluzioni alla gente che ha bisogno dovrebbe coinvolgere anche i pazienti in qualche modo nella condivisione dei pareri, come fanno fra di loro i medici e gli psicologi.

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Questa attesa per una diagnosi non ha senso poiché non siamo malati di una strana malattia che deve essere diagnosticata e le risposte a tutte le domande per arrivare alla terapia ormonale sostitutiva sono note, alla fine tutti possono fingere, quindi qual è il punto?

Continueremo a raccogliere esperienze e a chiedere di ascoltare la nostra voce. Presto nuovi aggiornamenti sui nostri prossimi appuntamenti!

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